Psicologia, Psichiatria e Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale Centro di Schema Therapy EMDR e Mindfulness ad Arezzo

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Elaborare i ricordi dolorosi che non riusciamo a lasciar andare via

Il dolore è ancor più dolore se tace

Giovanni Pascoli

A cura della Dr.ssa Chiara Mercurio

Quando si vive un’esperienza davvero sgradevole, due sono le cose che si possono fare, due sono le strade che si possono percorrere. Una è quella di guardare in faccia il ricordo di quell’esperienza, continuare a pensarci, a parlarne e a provare sensazioni al riguardo: può essere difficile, ma è come se ogni volta si desse a quel ricordo un piccolo morso, lo si masticasse per bene e lo si digerisse. Esso allora entra a far parte del nostro nutrimento e ci aiuta a crescere. E la parte che fa male si riduce sempre di più. Quando si dice che attraverso i momenti difficili si diventa più forti, è a questo che ci si riferisce.
Purtroppo a volte la gente percorre l’altra strada. Il ricordo è così doloroso, fa così male che lo si vuole solo scacciare, si vuole mettere un muro tra noi e lui, ci si vuole soltanto sentire bene e riuscire a tirare avanti la giornata. Questo funziona, almeno per un po’; ci dà sollievo. Ma il problema è che il ricordo non va via, è sempre lì, fresco come il giorno in cui il fatto è accaduto, sempre pronto a ripresentarsi per essere masticato completamente e digerito in modo da diventare parte del passato. E poi, ogni volta, c’è qualcosa che ci fa ripensare a quel ricordo, come se questo dicesse: “Ehi, ci sono anch’io, mi fai entrare adesso?”.
Ecco un esempio, quasi tutti noi, se camminando veniamo urtati incidentalmente da qualcuno forse ci secchiamo un po’ per qualche secondo, ma non di più, basta un: “Mi scusi”, e tutto finisce. Ma se la persona che viene urtata ha un mucchio di rabbia compressa dietro a quel muro, avrà la nostra stessa minima normale reazione, con in più tutto quel materiale che sta dietro al muro e che dice: “Anch’io”, per cui la persona sarà talmente fuori dai gangheri da essere pronta a litigare. E questo è il problema: il materiale che sta dietro al muro ci può saltare addosso in ogni momento e provocare in noi reazioni eccessive, rendere difficili le cose facili. E talvolta, non si sa come, si insinua in noi e ci fa sentire tristi o scoraggiati o cose del genere.
Così a volte la gente, quando si ammala per via di questi problemi, va da un terapeuta per farsi aiutare. E con il suo aiuto riesce a riafferrare ciò che ha cacciato dietro al muro: prende un pezzetto di quel ricordo, lo mastica per bene, lo digerisce e diventa molto più forte. Con l’EMDR accade qualcosa di molto simile a quanto succede con le altre terapie: si riesce a riprendere ciò che sta dietro al muro, se ne prende un pezzo, lo si mastica per bene, tutto qui. Solo che con l’EMDR si rivivono i vari pezzi del brutto ricordo molto più in fretta, magari si ripercorre un intero ricordo in sole due sedute, talvolta in più, talvolta in meno”.
Greenwald R. (2000)

L’approccio EMDR (dall’inglese Eye Movement Desensitization and Reprocessing, Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari) parte dal presupposto che la specifica procedura di cui si avvale, abbia la capacità di attivare un meccanismo neuropsicologicamente innato e fisiologicamente orientato alla salute e all’autoguarigione. Quest’approccio terapeutico suppone, infatti, che ognuno di noi possieda le risorse utili per l’elaborazione emotiva e cognitiva dei ricordi dolorosi e traumatici, e che il terapeuta abbia il ruolo di facilitare tale processo.

La Dr.ssa Chiara Mercurio applica questo approccio nella pratica clinica sia con adulti che con bambini e adolescenti.

Bibliografia

Greenwald R. (2000), L’EMDR con bambini e adolescenti, Astrolabio, Roma.

La Dipendenza Affettiva.

 

La difficoltà della giusta distanza nelle relazioni.

dipendenza affettiva

A cura della dott.ssa Giovanna Mengoli

 

“In una fredda giornata d’inverno un gruppo di porcospini si rifugia in una grotta e per proteggersi dal freddo si stringono vicini. Ben presto però sentono le spine reciproche e il dolore li costringe ad allontanarsi l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li porta di nuovo ad avvicinarsi si pungono di nuovo. Ripetono più volte questi tentativi, sballottati avanti e indietro tra due mali, finché non trovano quella moderata distanza reciproca che rappresenta la migliore posizione, quella giusta distanza che consente loro di scaldarsi e nello stesso tempo di non farsi male reciprocamente.”

Arthur Schopenhauer

Quando parliamo di “confini” in una relazione parliamo della vicinanza e della distanza dall’altro, della nostra capacità di percepirci come persona, come un “Io”… un pò come dire “sono consapevole di dove inizio e dove finisco”.

Il confine definisce, protegge e delimita la nostra identità.

Non è semplice modulare la giusta distanza nelle nostre relazioni, soprattutto in quelle più significative. Questa possibilità non riguarda solo le nostre relazioni d’amore, ma anche le amicizie, i rapporti familiari e lavorativi. Se ci osserviamo possiamo vedere come ci muoviamo continuamente lungo questo asse della distanza-vicinanza.

La distanza è data dal tempo e dallo spazio: quanto del nostro tempo dedichiamo all’altro? Quanto del nostro spazio riempiamo con l’altro?

In generale, possiamo descrivere due modalità estreme di stare in relazione con l’altro, considerando nel mezzo, le infinite sfumature. Ad un estremo abbiamo la modalità in cui ci si fonde e confonde con l’altro, dimenticandosi di se stessi e della nostra identità, si vive in funzione dell’altro, mettendo da parte la propria vita. L’altro estremo troviamo la modalità in cui si entra in relazione con l’altro, ma mantenendo sempre un’estrema distanza interna, non riuscendo realmente ad entrare in relazione intima con l’altro.

Chi si identifica con la prima polarità vive spesso legami che sono connotati da uno status di dipendenza affettiva.

La dipendenza affettiva è uno stato patologiconel quale la relazione di coppia è vissuta come condizione unica, indispensabile e necessaria per la propria esistenza. È la conditio sine qua non aldilà della quale non è possibile sopravvivere. Diventa la linfa vitale di cui quotidianamente nutrirsi.

Chi vive questo tipo di dipendenza attribuisce all’altro, oggetto d’amore, un’ importanza tale da annullare se stessi, non ascoltando i propri bisogni e le proprie necessità, subordinandoli a quelli dell’altro, a volte non riconoscendoli. Tutto questo per evitare di affrontare la paura più grande: la paura dell’abbandono, la rottura della relazione!

Le relazioni che i soggetti affetti da dipendenza affettiva instaurano non sono casuali e neanche la scelta del partner lo è.

Tipicamente i soggetti che presentano questo disturbo hanno l’idea di essere incapaci di vivere da soli e di non essere in grado di affrontare gli eventi della vita. Si sentono smarriti, vuoti e inutili senza la presenza di una persona al loro fianco.

Per tale motivo chi soffre di dipendenza affettiva quando inizia una relazione pensa al brillante futuro di protezione che potrebbe avere con questa persona. Il partner si ingaggia in una relazione affettiva con questa tipologia di soggetto solo perché ha bisogno di sottomettere qualcuno su cui spesso esercitare la propria superiorità.

Sono dunque atteggiamenti e comportamenti che si incastrano perfettamente come la chiave alla serratura: ogni vittima esiste perchè esiste un carnefice e viceversa.

Il soggetto dipendente presenta spesso una scarsa autostima percependosi sbagliato, inadeguato e  incompetente; tale considerazione di sé lo rende insicuro e lo porta ad avere una bassa valutazione del proprio valore personale e delle proprie capacità.

Il partner del dipendente sceglierà proprio un partner con tali caratteristiche ovvero con delle aree di vulnerabilità che gli consentiranno di avvilire le debolezze di questa persona, sul piano del fisico, del carattere, della bellezza, dell’intelligenza, operando un costante confronto con un ipotetico altro sempre migliore. Alla lunga questo atteggiamento determina nel dipendente una maggiore insicurezza che porterà a reazioni di gelosia, di paura, “sicuramente sceglierà chi è meglio di me”.

Tutto questo porta nel dipendente alla formazione di un circolo vizioso che si autoalimenta, ovvero totale perdita di autostima e di autoefficacia, allerta continua, terrore della perdita, che si manifesta con un senso di ansia costante e un aumento nel controllo nella relazione, ad esempio cercando di comprendere la volontà e i piaceri dell’altro, cercando di fare stare bene il proprio partner anticipandone i desideri e perpetuando la dipendenza.

Uscire da questo tipo di dinamiche relazionali è un percorso tortuoso e difficile, ma il primo passo da fare è quello di iniziare ad amare se stessi e a mettersi al centro della propria vita, riconoscendo I propri bisogni come giusti e al pari di quello del partner.

Come scriveva la dott.ssa Robin Norwood nel libro Donne che amano troppo”:

“Quando amiamo troppo, in realtà non amiamo affatto perché siamo dominate dalla paura: paura di restare sole, paura di non essere degne d’amore, paura di essere abbandonate o ignorate…

E amare con paura significa soprattutto attaccarsi morbosamente a qualcuno che riteniamo indispensabile per la nostra esistenza. Amare in modo sano è imparare ad accettare e amare prima di tutto se stesse, per potere poi costruire un rapporto gratificante e sereno con un uomo “giusto” per noi”.

 

Inadeguatezza: quella spiacevole sensazione di sentirsi sbagliati

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A cura di Dott. Rossano Bisciglia

Il percepirsi sbagliati è una sensazione che si riscontra di frequente nella vita di molte persone. A seconda del quadro personologico, può assumere forme più o meno invalidanti. Nei casi gravi questa sensazione può riguardare, da una parte la convinzione di essere inadeguati in tutte le aree di vita e dall’altra un sentimento costante di vergogna che si manifesta con pensieri tipici quali: “tutti prima o poi si renderanno conto di questo mio difetto”. Nella maggior parte dei casi, non è tanto ciò che si fa ad apparire sbagliato ma ciò che si è convinti di essere. Il continuo sottovalutarsi nel lungo termine potrebbe permettere alle altre persone di schiacciarci attraverso critiche e svalutazioni, con delle pesanti ripercussioni sull’autostima. A seconda delle situazioni e delle persone che incontriamo, in genere reagiamo alle critiche in tre modi: demoralizzandoci, esternando rabbia o chiedendo a se stessi performance estremamente elevate allo scopo di evitare le emozioni negative derivate dalle critiche stesse. Pensieri tipici in queste situazioni sono “devo essere perfetto/a alla festa, non devo sbagliare mai, devo risultare simpatico/a a tutti”. Tali richieste verso se stessi sono spesso eccessive e la probabilità che alla festa non si risulti simpatici a tutti è piuttosto alta oltre che ragionevole, a parere di chi scrive. Ciò che innesca il circolo vizioso del vissuto di inadeguatezza sono due errori di valutazione, ovvero, attribuire il “non sono simpatico/a a tutti solo ed esclusivamente a se stessi, convincendosi sempre di più di essere inadeguati oppure attribuendo la colpa agli altri. In questo secondo caso, pensieri tipici sono “ non capiscono nulla, sono persone da non frequentare più”. Come anticipato, la sensazione di inadeguatezza potrebbe presentarsi all’interno di un più complesso quadro di problemi psicologici. In ogni caso, un’attenta valutazione psicodiagnostica e un rigoroso progetto di terapia cognitivo comportamentale permettono di contrastare in modo corretto il problema. Uno degli obiettivi utili allo scopo di interrompere il circolo vizioso riguarda per esempio il rafforzare l’autostima. Tale obiettivo è raggiungibile con l’ausilio di tecniche psicologiche, proprie della terapia cognitivo comportamentale. Rafforzare l’autostima vuol dire riconoscersi il diritto di essere amati e rispettati indipendentemente dalle performance personali e sociali; mettere in discussione i pensieri e le sensazioni di inadeguatezza; accettare la presenza di eventuali difetti o mancanze come aspetti che non mettono in discussione la dignità come essere umano; mantenere una prospettiva stabile del valore personale anche quando si ricevono critiche e rifiuti; distaccarsi dall’atteggiamento difensivo, evitante/passivo o aggressivo allo scopo di avere delle aspettative meno rigide nei confronti di se stessi e degli altri.

Nella pratica clinica, capita che questo obiettivo non sia facilmente raggiungibile a causa di una storia di vita difficile, spesso connotata da esperienze talmente invalidanti da imprimere nella mente della persona la convinzione assoluta di essere davvero inadeguati. In questi casi, la terapia cognitivo comportamentale di terza generazione, in particolar modo la Schema Therapy (vedi post nel sito), permette di approfondire e lavorare su tematiche più profonde, più radicate. Sono spesso importanti bisogni primari (bisogno di sicurezza, di cure, di empatia, di validazione, di accettazione) insoddisfatti nell’infanzia e adolescenza a far si che si sviluppi uno schema di inadeguatezza. La presenza di tale schema funge da filtro per cui tutte le esperienze di vita successive, sono lette attraverso lo schema stesso. In poche parole la persona, indipendentemente dalle situazioni che vive quotidianamente, avrà sempre la medesima sensazione di essere sbagliata, la stessa che ha vissuto durante qualche momento importante della crescita. Il meccanismo di coazione a ripetere nel corso del tempo farà in modo che la persona consolidi lo schema formatosi perché familiare e coerente con le precedenti esperienze di vita. Il progetto terapeutico in questo caso sarà caratterizzato da un lavoro  che prevede la presa di consapevolezza della presenza dello schema nella vita della persona, della sua funzionalità e/o disfunzionalità e la sua sostituzione con uno schema che sia coerente con ciò che realmente la persona vive nel suo presente.

Come mai continuo a scegliere sempre la persona sbagliata ?

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A cura di Dott. Rossano Bisciglia

A molti di noi e a tanti nostri amici sarà capitato di porsi questa domanda. In realtà, come spesso capita, per poter trovare la risposta giusta  è necessario porsi la domanda in modo corretto. Nello specifico, il problema non è tanto scegliere la persona che poi si rileva sbagliata, ma piuttosto rimanervi legati anche quando si è compreso che lo è.

Proviamo a ritornare mentalmente a quando abbiamo conosciuto la persona: colpo di fulmine.. anima gemella… sto vivendo un sogno… mi sento viv*….  E poi un giorno, mi accorgo che il suo comportamento mi ferisce e che vorrei lasciarl*… ma alla fine è così difficile staccarsi da lui/lei al punto da accettare di proseguire la relazione nonostante il malessere che mi crea!!!

Proviamo a capirne di più !!

Nel corso della nostra infanzia e adolescenza, viviamo una serie di esperienze che, combinandosi con i nostri tratti genetici del carattere, determinano  la nostra personalità ed il nostro approccio alle relazioni. In particolare nell’infanzia abbiamo fatto di tutto per adattarci all’ambiente e  a far sì che i nostri bisogni di sicurezza, spontaneità, affetto, autostima, guida, regole venissero soddisfatti.
Potrebbe tuttavia essere accaduto che alcuni di questi bisogni non venissero riconosciuti né soddisfatti dai genitori o da altre figure educative significative importanti e che dovessimo rinunciarvi al punto da dover  modificare il nostro comportamento pur di ottenere qualcosa. Questo può averci portato a plasmare l’immagine di noi stessi, le aspettative sugli altri, le nostre emozioni ed il nostro comportamento di conseguenza.

Se ad es. il genitore è centrato completamente sui propri bisogni potrà accadere che il bambino si preoccupi costantemente di soddisfare i bisogni del genitore senza considerare i propri al fine di ricevere almeno un po’ di attenzione. Da adulto, se non riconosce questo processo e non lavora su di sé o non fa esperienze relazionali in qualche modo correttive, avrà la tendenza a soddisfare i bisogni degli altri e non chiedere nulla per sé e sarà più facilmente attratto da partner dominanti e centrati su di sé.

Nel presente, infatti, i nostri ricordi hanno un forte impatto sul nostro modo di relazionarci con gli altri, sebbene la loro influenza sia al di fuori della nostra consapevolezza. Quando ad esempio ci sembra che una persona ci piaccia, non stiamo facendo altro che attingere in maniera automatica ed inconsapevole dalla nostra memoria. Anche solo ascoltando la voce o dando la mano ad un’altra persona si attivano in noi reazioni emotive che hanno le loro radici nel passato e che ci possono portare a provare attrazione o repulsione verso quella persona.
Ma perché le persone sbagliate sono così attraenti e non riusciamo ad allontanarci facilmente da loro?

Siamo spesso attratti da ciò che è noto o conosciuto, per quel fenomeno che in psicologia è definito “coerenza cognitiva”. Inoltre possiamo rimanere bloccati in una relazione che ci richiama una relazione passata, come a voler tentare a tutti i costi a modificare il finale. Anche il colpo di fulmine è attivato dai nostri ricordi ed è spesso guidato dalla riattivazione di schemi precoci disfunzionali che ci riportano a rivivere nel presente situazioni problematiche del passato. Può accadere allora che se abbiamo subito un abbandono nel corso dell’infanzia, ci ritroviamo ad essere attratti da persone inaffidabili e poco presenti, se siamo stati ignorati dal punto di vista affettivo ci avviciniamo a partner distaccati e centrati su di sé.

Come posso uscire da queste trappole relazionali ?

Un approccio che integra la già solida e validata  psicoterapia cognitivo comportamentale è la Schema therapy che permette di orientarsi nelle proprie relazioni comprendendo il ruolo che hanno gli schemi nella scelta nel partner. Il percorso terapeutico permette di lavorare sulle emozioni in modo molto pratico e creare un collegamento tra situazioni e sensazioni passate e presenti per poi identificare gli schemi coinvolti, confrontarsi con essi e mettere in atto strategie di fronteggiamento diverse.

Autostima: istruzioni per l’uso

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Articolo cura della Dott.ssa Giovanna Mengoli

“Messaggio per un’aquila che si crede un pollo”.

”Un uomo trovò un uovo d’aquila e lo mise nel nido di una chioccia.

L’uovo si schiuse contemporaneamente a quelle della covata, e l’aquilotto crebbe insieme ai pulcini.

Per tutta la vita l’aquila fece quel che facevano i polli del cortile, pensando di essere uno di loro.

Frugava il terreno in cerca di vermi ed insetti, chiocciava e schiamazzava, scuoteva le ali alzandosi da terra di qualche decimetro.

Trascorsero gli anni, e l’aquila divenne molto vecchia. Un giorno vide sopra di sé, nel cielo sgombro di nubi, uno splendido uccello che planava, maestoso ed elegante, in mezzo alle forti correnti d’aria, muovendo appena le robuste ali dorate.

La vecchia aquila alzò lo sguardo, stupita. “Chi è quello?” chiese.

“è l’aquila, il re degli uccelli” rispose il suo vicino. “Appartiene al cielo. Noi invece apparteniamo alla terra, perché siamo polli”. E così l’aquila visse e morì come un pollo, perché pensava di essere tale.

Anthony de Mello

 

Questa metafora ci fa comprendere come la nostra mente è “come una lente: la visione di sé stessi e del proprio corpo avviene attraverso una lente che può modificare, deformare, ampliare o distorcere ciò che si osserva”.

Dobbiamo quindi imparare a conoscere questa lente e i suoi filtri, perché essa influisce non solo sul modo in cui vediamo il nostro corpo, ma sul modo in cui vediamo noi stessi in generale e quindi sulla nostra autostima. A sua volta, il modo in cui vediamo noi stessi è a fondamento del nostro modo di porci rispetto all’ambiente, alla nostra vita.

In realtà non è così semplice, esiste una componente individuale, personale, che si tralascia, ma che risulta essere determinate per l’autostima. L’autostima è una stima, una valutazione, che si fa di se stessi, un giudizio derivante dalla domanda: “Cosa penso di me?”.

Se si ha una buona concezione di se stessi, allora si avrà un’alta autostima, altrimenti ci si disistima. Solitamente, quest’ultima deriva da un divario che si crea tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che realmente si è. Quando queste due valutazioni sono distanti, si determina una discrepanza che porta ad una scarsa considerazione di se stessi. Ed è proprio qui che si comincia a rimuginare negativamente su quanto poco valore si ha. 

Se l’autostima cala significa che qualcosa d’importante sta accadendo, in qualche modo si inseguono i desideri altrui trascurando quelli che sono i nostri reali bisogni, e così si cade nel baratro del non valore, pensando che i desideri altrui sono sempre migliori dei propri.

Perché è così importante avere una buona stima di se stessi?

Quando percepiamo un calo della nostra autostima siamo portati a non sentirci più efficaci ed efficienti, provando emozioni quali rabbia e tristezza.

Tali sentimenti ci spingono a ricercare all’esterno qualcosa che ci possa confermare o migliorare il nostro valore.

Avere una scarsa considerazione di se stessi, ci porta inevitabilmente ad evitare di affrontare determinate situazioni, siano esse sociali, professionali per paura di poter commettere errori e percepirsi inadeguati ai propri occhi e a quelli degli altri.

Quando si verifica un insuccesso siamo portati a soffrire maggiormente associando quanto accaduto esclusivamente a noi stessi e ad una nostra mancanza. Per cui se i progetti, i lavori o le iniziative intraprese non sfociano nel giusto successo che meritano allora si raggiunge un fallimento.

Mentre, quando si sperimenta un successo si tende a svalutarlo e ad attribuirlo a cause esterne piuttosto che a se stessi.

D’altro canto colui che ha una giusta visione di sé stesso è pienamente consapevole del fatto che non tutti i progetti o iniziative si concludono con successo, che probabilmente alcuni d’essi non raggiungeranno gli obiettivi sperati.

La mancanza di fiducia in sé stessi può danneggiare la vita, al punto da creare situazioni anche senza via d’uscita, a meno che non si passi ai ripari e si costruiscano delle certezze su cui contare.

Inoltre, chi sperimenta una bassa autostima spesso vive la sensazione di non avere o di perdere il controllo delle proprie emozioni, che conosce poco.

Ci sentiamo in tal modo incapaci di raggiungere i nostri obiettivi nel modo in cui vorremmo che fossero raggiunti.

Per tale motivo è necessario avere consapevolezza delle proprie emozioni imparando a riconoscerle ed entrare in contatto la propria sofferenza. Solo così si può capire perché è importante avere una buona stima di noi stessi.

Per perseverare questo obiettivo bisogna lavorare sull’immagine di se, che non significa dimagrire, smettere di fumare etc…, perché così facendo ancora una volta si sta rispondendo a dei diktat sociali, esterni, che potrebbero non corrispondere alle esigenze della persona.

Lavorare su stessi significa comprendere gli obiettivi si vuole raggiungere, volersi bene e stimarsi per quelli che si è. Ognuno di noi è unico e irripetibile anche se ha dei difetti, la perfezione non è umana. 

Per questo dobbiamo neutralizzare le visioni distorte che non ci permettono di volerci bene per come siamo.

Date alla vostra Aquila una chance e non permettete mai a nessuno di convincervi che siete solo un pollo e che niente potrà cambiarvi.

 Sarà necessario così aprirsi alla vita con una rinnovata curiosità, abbandonare le cattive competizioni ed incentivare la volontà di vivere la propria esistenza con amore e passione. Ognuno di noi saprà scoprire così il sapore delle proprie esperienze.

 La Terapia Cognitivo – Comportamentale lavora proprio su quelle che sono le percezioni sbagliate che abbiamo di noi stessi e della realtà.

Bibliografia

  • De Mello, A., (2013), Messaggio per un’aquila che si crede un pollo. Pickwich, Milano

Liberarsi dai Traumi “Il passato che non passa”.

Liberarsi dai traumi

“A volte i ricordi diventano il presente e il presente svanisce come un ricordo lontano.”

Massimo Valerio Manfredi

“Il ricordo delle cose passate non è necessariamente il ricordo di come siano state veramente.”

Marcel Proust

 

Articolo a  cura della Dott.ssa Giovanna Mengoli

La parola trauma deriva dal greco τραũμα che significa ferita. Viviamo un trauma psichico quando siamo esposti ad uno stimolo minaccioso ed improvviso a cui non possiamo reagire né sottrarci, che sovrasta la nostra capacità di farvi fronte emotivamente, provocandoci un profondo senso di impotenza, di intensa paura ed orrore.

Herman definiva il trauma “il dolore degli impotenti”. Infatti, una ferita che può travolgerci per i suoi effetti e le sue conseguenze e può impedirci di continuare a vivere come prima. Eventi catastrofici, violenze subite o di cui siamo testimoni, malattie, incidenti o eventi invalidanti sono per definizione esperienze traumatizzanti. Ma, anche la rottura di un legame affettivo, la perdita del lavoro, una grave umiliazione, la morte di una persona amata e altro ancora, può essere vissuto come un’esperienza traumatica.

Come afferma van der Kolk B. (1994) “il problema non è quello che è successo, ma il ricordo di quello che è successo”.

Per tale motivo non tutti reagiamo agli stessi eventi nello stesso modo, ed anche la nostra reazione soggettiva può variare nell’arco della nostra vita.

Quando viviamo un’esperienza traumatica è il nostro sistema di sopravvivenza a prendere il sopravvento, questo accade in modo automatico e fuori dal nostro controllo. Per questo ci può capitare di pensare di aver reagito in modo insensato ed irriconoscibile rispetto al nostro solito modo di essere.

Dopo l’esposizione ad un evento traumatico la qualità della nostra vita può risentire in modo importante della presenza di alcuni sintomi caratteristici, alcuni di questi possono essere:

  • il continuo rivivere l’evento traumatico (nei sogni, attraverso la comparsa involontaria ed improvvisa di ricordi ed immagini, oppure nel sentire ed agire come se l’evento traumatico si stesse davvero ripresentando…)
  • l’evitamento di tutti gli stimoli associati al trauma (possono essere evitate in modo persistente attività, persone, luoghi, pensieri che ne suscitano il ricordo)
  • difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno, difficoltà a concentrarsi, irritabilità e scoppi di collera, ipervigilanza ed esagerate risposte di allarme, perdita di interesse rispetto alla propria vita ed al proprio futuro, sentimenti di estraneità verso gli altri ed affettività ridotta, sentimenti di vergogna e colpa rispetto a quanto accaduto, così come disperazione…

 All’interno dell’equipe dello studio Coradeschi la dott.ssa Giovanna Mengoli è formata in modo specifico per il trattamento del trauma, ha conseguito un master in psicotraumatologia ed ha superato il corso EMDR uno degli interventi per il superamento del trauma e del Disturbo Post-Traumatico da Stress considerato dalle ricerche internazionali come più efficace.

All’interno di un percorso di psicoterapia individuale, l’EMDR rappresenta un nuovo e importante sviluppo in psicoterapia, offrendo allo psicoterapeuta una modalità innovativa di comprensione della patologia e, quindi, di intervento.

L’EMDR – L’EMDR acronimo di Eye Movement Desensibilization and Reprocesing (Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari) è considerato dalla comunità scientifica internazionale e dalle maggiori Organizzazioni Nazionali ed Internazionali di Assistenza, un trattamento d’elezione nella cura del trauma, basato su prove di efficacia. Si ritiene che attraverso i movimenti oculari e altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra, all’interno di un protocollo standard sperimentato e validato, venga stimolata la capacità innata del nostro cervello a rielaborare in modo positivo ed adattivo quei ricordi traumatici, “bloccati” nel passato.


Negli ultimi anni ci sono stati più studi e ricerche scientifiche sull’EMDR che su qualsiasi altro metodo usato per il trattamento del trauma e dei ricordi traumatici. I risultati di questi lavori hanno portato questo metodo terapeutico ad aprire una nuova dimensione nella psicoterapia. L’efficacia dell‘EMDR è stata dimostrata in tutti i tipi di trauma, sia per il Disturbo Post Traumatico da Stress che per i traumi di minore entità. Nel 1995 il Dipartimento di Psicologia Clinica dell’American Psychological Association ha condotto una ricerca per definire il grado di efficacia di questo metodo terapeutico e le conclusioni sono state che l’EMDR è non solo efficace nel trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico ma che ha addirittura l’indice di efficacia più alto per questa categoria diagnostica.

Dopo l’EMDR, il paziente ricorda ancora l’evento o l’esperienza, ma sente veramente che fa parte del passato e il contenuto è totalmente integrato in una prospettiva più adulta. Infatti, consente di raggiungere una visione più matura e bilanciata facendo in modo che il nostro passato non riviva in maniera dolorosa nel nostro presente.

Bibliografia

  • Liotti, G., Farina, B. (2011), Sviluppi Traumatici. Raffaello Cortina, Milano.
  • Shapiro, F., Lasciare il passato nel passato. Astrolabio, Roma 2013
  • Van Der Kolk, B.A., McFarlane, A.C., Weisaeth, L., Stress Traumatico. Gli effetti sulla mente, sul corpo e sulla società delle esperienze intollerabili. Magi. Roma 2005.

Trattamenti comportamentali per i disturbi del sonno

sonno perlis

(dalla quarta di copertina)
“Questo è un trattato di medicina comportamentale del sonno nato dallo sforzo congiunto dei massimi esperti mondiali del settore. Una guida chiara, dettagliata e aggiornata all’utilizzo dei principali protocolli d’intervento cognitivo-comportamentali evidence-based per il trattamento dei disturbi del sonno. Oltre ai ben noti e consolidati interventi per l’insonnia e per i disturbi del ritmo circadiano, vengono presentate strategie comportamentali per superare problemi del sonno nell’infanzia tra cui il terrore notturno, l’enuresi e la fobia del buio. Ampio spazio viene inoltre dedicato allo sviluppo di metodologie per l’incremento dell’aderenza al trattamento medico delle apnee notturne.

Un manuale di riferimento per psicoterapeuti di ogni indirizzo, medici ed esperti nel settore della medicina comportamentale.”

Il curatore dell’edizione italiana

Davide Coradeschi, PhD
psicologo e psicoterapeuta
dottore di ricerca in psicologia sociale e della personalità

Mindfulness: cos’è e come agisce per migliorare il benessere psicologico

Mindfulness

 

Sono tante le ragioni per le quali ci stiamo rivolgendo verso la consapevolezza, non ultima forse l’intenzione di conservare la nostra salute mentale o di recuperare il senso delle proporzioni e o il significato delle cose, o anche solo di tenere testa al tremendo stress e alla grande insicurezza del nostro tempo …in effetti limitarsi a sedere e a stare tranquilli per un po’ di tempo per proprio conto è un atto radicale di amore.

Jon Kabat Zinn

Fermarsi nel momento presente, godere del “qui e ora”, essere consapevoli delle cose che capitano nel momento stesso in cui avvengono, prestare attenzione alla realtà nella sua immediatezza, è qualcosa non solo di auspicabile, ma certamente di molto utile per il benessere psicofisico della persona.

Tutto ciò reso evidente dalle parole di Jon Kabat Zinn, uno dei padri della Mindfulness al quale dobbiamo la sua più esaustiva, nella sua semplicità, definizione : “porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante”.

Concettualmente essere presenti ogni minuto della nostra vita a noi stessi e alle cose che ci accadono è sicuramente molto importante, tuttavia, nella realtà della nostra vita quotidiana, è altresì piuttosto difficile vivere con cotanta attenzione. La nostra mente tende ad andare ovunque che non sia l’immediato adesso, indietro crogiolandosi nei ricordi, belli quanto brutti, e avanti, (pre)occupandosi di tutte le cose che (a volte necessariamente a volte no) rincorriamo per gestire la quotidianità. Fermarsi dal treno dei pensieri, per scendere alla stazione del presente, è un qualcosa che richiede tempo, spazio ed esercizio. L’esercizio per disinnescare il “pilota automatico” colpevole, per lo più, di farci vivere più nella nostra testa che nella nostra vita, è per certi versi proprio la pratica Mindfulness.

La Mindfulness ha origini antichissime che prendono spunto dalle dottrine orientali, ed attualmente è diventata, sostenuta da una corposa mole di studi che ne avvalorano l’efficacia, uno strumento per la gestione dello stress, così come delle difficoltà che incontriamo durante il corso della vita.

Gli interventi terapeutici Mindfulness-Based riguardano la Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) e la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT), sviluppate da Jon Kabat-Zinn nel 1979 presso il Medical Center della University del Massachusetts.

Gli incontri di gruppo durano 2 mesi, sono 8 appuntamenti della durata di 2 ore una volta a settimana.

Lo sviluppo della facoltà di Mindfulness è affidato a momenti “formali” in cui sono previste pratiche meditative dai 3 ai 30 minuti da portare avanti quotidianamente e momenti di pratica “informale” che consistono nel promuovere un atteggiamento rivolto alla continuità della consapevolezza nella vita di tutti i giorni.

Sono innumerevoli gli studi che ne dimostrano la potenza, in termini di riduzione dello stress, di prevenzione alla ricadute depressive, nella riduzione del dolore cronico e le ultime evidenze riportano che la pratica Mindfulness, ha effetti persino a livello neurale; su persone che meditano i contributi scientifici hanno riportato effetti della pratica sulle aree del cervello adibite alla regolazione emotiva (ad esempio un incremento e modulazione dell’attività della corteccia del lobo prefrontale sinistro sede delle emozioni positive).

Dott.ssa Elena Mannelli

Primo giorno di scuola… Che emozione?

img152042I figli sono come aquiloni

I figli sono come aquiloni…..passi la vita a cercare di farli alzare da terra. Corri e corri con loro fino a restare tutti e due senza fiato…. E tu rappezzi e conforti, aggiusti e insegni… Li vedi sollevarsi nel vento e li rassicuri che presto impareranno a volare…Infine sono in aria: gli ci vuole più spago e tu seguiti a darne…E a ogni metro di corda che sfugge dalla tua mano, il cuore ti si riempie di gioia e di tristezza insieme…Giorno dopo giorno, l’aquilone si allontana sempre di più, e tu senti che non passerà molto tempo che quella bella creatura spezzi il filo che vi unisce e si innalzi, come è giusto che sia, libera e sola….Allora soltanto saprai di avere assolto il tuo compito…

(Erma Bombeck)

Ogni passaggio di autonomia dei figli lascia i genitori col fiato sospeso “ce la farà? Non lo ha mai fatto prima d’ora…” il primo giorno al nido, alla materna, alle medie o alle superiori si torna a vivere l’intensità di un cambiamento importante, ci riporta indietro al nostro primo giorno e ci sentiamo pervasi da una serie di reazioni emotive e fisiologiche che a volte ci può far barcollare …

Il primo giorno di scuola è sicuramente un momento atteso ed emozionante per i genitori, per i figli e per gli insegnanti.

EMOZIONI dei GENITORI
Sollievo per poter condividere con la scuola le gestione dei figli
Paura di non sapere se il bambino se la caverà
Fiducia nella scuola e nelle capacità del bambino
Speranza che tutto vada bene
Tenerezza verso un figlio che cresce
Ansia per il tipo di cibo, per il compagno di banco irruento, per l’insegnante che non capisce il figlio, ecc…

EMOZIONI dei FIGLI
Gioia di ritrovare gli amici
Paura di trovarsi in una scuola nuova, con compagni nuovi, ecc..
Ansia per non aver finito i compiti per le vacanze
Speranza di trovare quello che si aspettano
Noia nel dover stare seduti tutto il giorno
Curiosità di cosa li aspetta, dai compagni agli insegnanti

EMOZIONI degli INSEGNANTI
Preoccupazione per la ripresa della nuova classe
Gioia di ritrovare il proprio lavoro
Entusiasmo nel cominciare con il piede giusto
Ansia per i programmi sempre più impegnativi da portare avanti
Speranza che le situazioni si possono affrontare, anche se impegnative
Impegno per un nuovo anno

Questi sono solo alcuni dei sentimenti che ogni protagonista di questa avventura può provare al rientro dalle vacanze.

È importante tenere presente che esistono queste tre categorie di persone coinvolte e che, ognuna di queste può vivere emozioni diverse, dettate da motivazioni e aspettative diverse, ma che inevitabilmente si troveranno a coesistere nello stesso momento. Questa coesistenza può tradursi in un momento intenso positivo o anche molto negativo.
È importante che almeno i genitori e gli insegnanti sappiano decifrare cosa provano, perché saranno proprio loro (i genitori a casa e gli insegnanti in classe), a guidare i bambini nel contenere, comprendere a andare oltre l’intensità emotiva che i piccoli o più grandi alunni si trovano a vivere. Infatti se non siamo chiari con il nostro vissuto emotivo, rischiamo di confonderlo con il vissuto emotivo del bambino e questo può essere disorientante.

Vediamo nel dettaglio cosa è importante sapere in base all’età del bambino e al grado di scuola che l’alunno andrà ad affrontare.

Nido
Il bambino tra i 7 mesi e i 2 anni sperimenta l’angoscia da separazione, in questa fascia d’età ancora ha bisogno di sperimentare attraverso l’esperienza per capire cosa aspettarsi. Infatti non sa che se la mamma lo lascia tra le braccia dell’educatrice del nido, la mamma tornerà a prenderlo, ha bisogno di sperimentarlo probabilmente piangerà, durante il giorno sarà più nervoso anche a casa, ma poi l’esperienza diventerà sempre più familiare e si trasformerà in routine che gli darà sicurezza.
Per il genitore affidare il proprio figlio la prima volta ad un estraneo non sempre è facile, è il primo vero distacco e spesso è il genitore per primo a non essere pronto; così può vivere: senso di colpa, ansia o anche essere fiducioso e sicuro che, anche se difficile sul nascere, sarà un esperienza positiva per il bambino e per la famiglia.
Che fare?
Prima di tutto rilassatevi, il vostro disagio, se presente verrà captato immediatamente dai vostri figli che si sentiranno poco rassicurati …
allora Genitori stringete i denti! fate un bel respiro, un sorriso dolce e gentile ai vostri cuccioli, fidatevi del personale del nido e del vostro bambino! Inoltre mantenete aperta la comunicazione con le educatrici pensando a loro come ad un importante risorsa, così come voi lo siete per loro, collaborando per il meglio dei vostri bambini nel percorso di crescita e di autonomia che li aspetta.

Scuola materna
Il bambino dai 3 anni ai 5 anni è pronto a sperimentarsi nella scoperta delle relazioni sociali con i coetanei, è un periodo di profondi cambiamenti e l’ingresso alla scuola materna è un passo significativo. In questa fase l’angoscia da separazione dei primi due anni si può trasformare in ansia, molti bambini hanno già verificato che la mamma può uscire ma poi torna, lo può lasciare dai nonni per poi tornare, ma il contesto scuola è nuovo, le maestre molte volte non le conoscono e i compagni sono una novità. Anche i bambini che hanno frequentato il nido vivono un’esperienza nuova e diversa.
Le reazioni sono comunque molto differenti, in generale un bambino appartenente a questa fascia d’età si adatta al cambiamento in un periodo che va da 2 a 6 settimane, se il bambino continua a manifestare comportamenti inconsueti (irrequietezza, scatti di rabbia, pianto, mal di pancia frequenti, inappetenza la mattina prima di uscire, rifiuto scolastico, ecc) oltre i due mesi dall’inizio della scuola, sarà importante comprendere la motivazione perché potrebbe celarsi un disagio più importante.
Nel genitore può accadere la stessa cosa che accade ad un genitore del nido e suggerimenti sul da farsi sono equivalenti.

Scuola primaria
Il bambino dai 6 ai 10 anni è in grande cambiamento è questa un’età in cui oltre all’impegno scolastico il bambino è chiamato a rispettare le regole in modo più incisivo di quanto non sia accaduto alla scuola materna, i limiti e gli insegnamenti sono sempre più strutturati e la valutazione del profitto e del comportamento mette le radici nell’autovalutazione del bambino e nello sviluppo della sua autostima, inoltre i rapporti con i compagni ormai sono caratterizzati da amicizie importanti. Spesso i bambini cambiano scuola e per i primi giorni, ma non solo, hanno bisogno di rassicurazione e se anche il genitore è emozionato è importante che condivida quest’emozione col bambino, magari raccontandogli il suo primo giorno di elementari. Dal punto di vista pratico sarebbe buona cosa creare la routine di preparare il necessario per la scuola (lo zaino, i vestiti, ecc …), la sera prima insieme al figlio (e non al posto del bambino). Le routine di questo tipo danno sicurezza e fanno sentire il bambino accompagnato e accudito, magari proprio in questi momenti si può approfittare per condividere il reciproco vissuto emotivo.
Anche in questa fase sarà importante mantenere rapporti di fiducia con le insegnanti e instaurare una buona comunicazione.

Scuola secondaria di primo grado
Il ragazzo dagli 11 ai 14 anni è nella fase pre-adolescenziale, il gruppo di pari diventa il suo primo confronto e il genitore diventa una persona da cui differenziarsi, a volte scontrandosi attraverso attacchi e comportamenti atipici, molto diversi da quelli incontrati fino a quel momento. I ragazzi si confrontano molto con gli altri compagni e da questo confronto traggono considerazioni sul loro modo di essere e su quanto si sentono accettati dagli altri. Qui l’ansia si manifesta prevalentemente nei termini di ansia sociale (paura del giudizio degli altri, specialmente dei coetanei).
Il genitore sarà chiamato ad accompagnare il figlio nel passaggio alla scuola media ascoltando profondamente e guidandolo delicatamente. Non ci si aspetta che parli sempre esplicitamente, e se non lo fa iniziate voi genitori, raccontando la vostra esperienza nelle varie difficoltà che avete incontrato e superato senza trascurare né le difficoltà, né le modalità con cui queste sono state superate, siete il loro modello ed è importante che gli diate il messaggio “anche per me alcuni momenti sono stati difficili, ma con il tempo e con la mia volontà li ho superati, anche se come te, non credevo di potercela fare..”. un messaggio di questo tipo dà al figlio la dimensione di umanità del modello “non è un superuomo perfetto, ma se la sa cavare nelle difficoltà”.

Scuola secondaria di secondo grado
I ragazzi della scuola superiore si sentono quasi adulti, ma non essendolo realmente hanno ancora molti dubbi che non confessano neanche a loro stessi, sono nel pieno della differenziazione dai genitori, e molte volte si relazionano solo a distanza, attraverso silenzi e scontri. Qui la scuola ha un ruolo decisivo, infatti i ragazzi tendono a seguire come modello un adulto esterno alla famiglia (un insegnante, il genitore di un amico, un allenatore), e il gruppo di pari diventa il branco con cui passare il tempo.
Il genitore non sarà chiamato a controllare da vicino ogni singolo momento del figlio, ma sarà importante essere a conoscenza degli amici che frequenta, lasciando che il figlio inviti in casa i suoi amici, mantenendo dei rapporti di fiducia con i genitori di cui spesso parla il figlio o che sappiamo che frequenta, e con gli insegnanti sempre una buona comunicazione per avere un confronto sul ragazzo dal loro punto di vista. È il momento di spiccare il volo, alcuni si buttano e volano senza problemi, altri chiedono ancora molto la presenza dei genitori, anche per essere accompagnati a scuola, importante assecondarli, ma in entrambe i casi valutare il loro grado di autonomia.
Nel primo caso verificare attraverso il confronto con gli insegnanti che il figlio frequenti la scuola e se la sua autonomia è funzionale all’impegno scolastico.
Nel secondo caso sarà importante comprendere dopo i primi giorni se il ragazzo è in grado di affrontare la scuola sia accompagnandolo, sia andandoci da solo, se mostrerà paura o ansia eccessiva tanto da non permettergli di andare o da renderlo estremamente faticoso, sarà importante indagare e aiutarlo a superare tale difficoltà magari rivolgendosi ad una persona competente.

PER TUTTI

• Aiutiamo i nostri figli a ripristinare un ritmo sonno/veglia adeguato ai ritmi scolastici
• Manteniamo buoni rapporti con la scuola e con gli insegnanti pensando alla scuola come una risorsa .. fidiamoci di loro e affidiamogli i nostri figli
• Creiamo momenti di routine di preparazione al giorno di scuola che verrà
• Riconosciamo le nostre emozioni e differenziamole dalle loro
• Ascoltiamoli e lasciamo che ci raccontino come si sentono e cosa hanno vissuto, in seguito comunichiamo loro come ci sentiamo nel guardarli crescere. Proviamo a chiedere “come ti sei sentito oggi?” e non “come è andata?”
• Confrontiamoci con loro e condividiamo le nostre esperienze dei nostri primi giorni di scuola

Dott. ssa Cristina Jacchia

Servizio di consulenza psichiatrica

 

Presso lo Studio Coradeschi è possibile usufruire di un servizio di consulenza psichiatrica specialistica fornito dalla Dott.ssa Elisa Compagno, medico, psichiatra e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale. Riteniamo fondamentale che un equipe di psicologi e psicoterapeuti si avvalga delle competenze scientifiche di tale figura professionale al fine di fornire ai propri pazienti un aiuto più completo ed efficace. In particolare la consulenza psichiatrica risulta fondamentale nei seguenti casi:

  • pazienti che desiderino cominciare a ridurre l’impiego di psicofarmaci
  • pazienti che desiderino ottimizzare una terapia farmacologica in corso
  • pazienti che desiderino aumentare l’efficacia della psicoterapia aggiungendo l’aiuto farmacologico
  • pazienti che necessitino di stabilizzare la sintomatologia prima di iniziare il percorso psicoterapico
  • pazienti che per motivi di costi, tempi e motivazione, qualora indicato dalla letteratura scientifica, preferiscano l’opzione farmacologica alla psicoterapia

 

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